Sabato 18 dicembre 2004





Tutti i soliti più alcuni altri che non conosco se non di vista. L'appuntamento è al campo decennale del cimitero di Rivarolo: funerale di Carmelo, quello della stanza per il partito. Morte improvvisa; infarto polmonare. Parole ripetute con cautela: di infarto - tra noi "infartico" - si sa che si muore. In più c'è quella parola "polmonare" che evoca il fumo, il male in sé, che a sua volta, è risaputo, col tumore polmonare c'entra. Anche con l'infarto? Solite domande: di che leva era e se fumava. Risposte non rassicuranti: era più giovane di molti dei presenti e non fumava. Funerale civile, essenziale cioè squallido. Qualcuno osserva che la mancanza del rito religioso toglie parecchio al senso del congedo. "Vedi a che punto ce l'hanno contata - Piero allude ai preti - che non te ne puoi andare senza pensare che ti mancano".
Non c'è voglia di parlare ma di filarsela alla svelta. Il nostro gruppetto suddiviso tra alcune macchine si è diretto verso Pontedecimo, a pochi km da lì. Non pensavamo di riunirci ma "visto che ci siamo" abbiamo deciso seduta stante di trovarci al Nazionale. E' un antico albergo di posta - sulla statale 45 che da Pontedecimo sale al passo dei Giovi - dove la stalla è stata trasformata in una moderna sala ristorante. Un posto dove non si giudica strana la gente che chiede da mangiare quando neppure è mezzogiorno.
E' Lino che rompe l'atmosfera buietta che ci accompagna dal cimitero. I fiori della nostra corona, dice - "A Carmelo i compagni di lavoro" (-Meggiu "gli amici" o "I compagni"? - "Mia, fagghe mette cumpagni tantu u preve u nu ghé") - erano bruciati dal freddo perché i fiorai sono facce marce che ti fanno vedere un fiore e poi nella corona ce ne mettono uno peggio perché sanno che ai funerali non si discute, e che lui da bambino abitava vicino al cimitero di Rivarolo e vedeva i garzoni mandati dai fiorai a fregare i fiori nel cimitero perchè così se li rivendevano. "Mia, t'è finiu", gli ha detto Paolo. Ma Lino s'è quietato solo per poco. Si capisce che è turbato, come noi del resto, ma a lui il turbamento fa quell'effetto che lo deve menare al prossimo e si attacca alla prima cosa o persona che ha per le mani. Infatti riattacca; questa volta sul museo. "Oh figgeu, stu belin de duemillaquattru l'è tostu finiu. Emmu fetu un muggiu de pransi ma nu l'è sciurtiu feua in belin...". E prosegue, in dialetto, "avremmo fatto meglio a fare come avevo detto io la prima volta: uscire e tirarsi la porta dietro e tutto quello che restava là dentro era il museo. Poi sarebbe toccato a lui - e qui ha indicato me - di metterci i bigliettini, spiegando e titin e titan, a cosa serve o non serve quello che si vede".
Nessuno ha dato retta al suo sfogo. Il funerale ha messo fame e specialmente sete; siamo impegnati nell'ordinazione. Il quasi fuori orario richiede una semplificazione delle richieste: tagliatelle ai funghi e fritto misto all'italiana per tutti. Ugo ostenta distacco dal cibo e approfitta della battuta di Lino per raccontare una delle sue storie. Questa è già nota alla maggior parte di quelli che sono lì ma la ripete senza timore d'essere giudicato un diméntico perché le storie, come gli argomenti, quando ci stanno si possono ripetere. Tutti ne sono convinti; infatti nessuno dà segni di insofferenza.
Chiudere la luce e tirarsi dietro la porta: proprio come era successo a Pompei al tempo della famosa eruzione. Ugo lo sa perché durante la guerra era imbarcato su un incrociatore e quando faceva scalo a Napoli lui, lui e altri 4 o 5 si fiondavano a Pompei. "Giù lo scalandrone e via. Avevamo scoperto che là non bombardavano mai così noi quando potevamo ci passavamo la giornata piena. Padroni della città romana; nessuno in giro; solo i guardiani che per due soldi ci facevano anche da mangiare". Era stato in una di quelle occasioni che un guardiano gli aveva detto di Plinio e gli aveva venduto "un libretto con le cose che aveva scritto a quei tempi". A Pompei era successo un po' come vorrebbe Lino solo che, a chiudere la porta, a sigillare tutto, cose e persone - "compresi quelli che avevano cercato di scappare che sotto la polvere c'era ancora la forma" - era stata la polvere. A questo punto Lino, che tra l'altro ha un temperamento scaramantico, è reintervenuto: "primma de serà u nostru museu, pe piaxei, i uperai femmuli sciurtì". Abbiamo riso ed è finita lì perché si è passati a discutere se col fritto non era meglio un grignolino piuttosto della solita barbera. Verso il bianco permane diffidenza.
A fine pranzo ho detto che quella era l'ultima volta e che del museo non avremmo più parlato a meno che qualcuno... L'ho detto per fare una battuta ma ho notato espressioni costernate, giocosamente ma non troppo. Uno ha detto qualcosa come "non sarai mica matto" e a me è scappato da ridere; dopo anche loro hanno riso tranquillizzati. Però, ho aggiunto, ho bisogno di una mano per il lavoro che mi avete incaricato di fare. Ho molto materiale e bisogna semplificare e, qua e là, chiarire. Poi, siccome ci sono sicuramente questioni di cui neppure s'è parlato, forse - tanto per completezza - potremmo buttar giù una specie di elenco di argomenti o di fatti che a parere vostro sono importanti o di cui vi siete ricordati nel frattempo...
Mi aspettavo un silenzio smaltato invece, uno via l'altro, sono rotolati sul tavolo una tale massa di argomenti e di parole che solo in parte sono stato in grado di raccogliere. Argomenti per lo più relativi al versante domestico della vita di fabbrica. Hanno parlato di consumi e di vita familiare: l'acquisto del frigo, della lavatrice, della macchina, dei mobili di casa... la via maestra ai consumi. E poi il matrimonio, la decisione presa circa il numero dei figli, l'organizzazione famigliare, il lavoro della moglie sì o no; la scuola, ovviamente dei figli, l'indirizzo, le attese. E il bilancio familiare, la quindicina, le buste con la ripartizione dei soldi per voci di spesa, il libretto dal negoziante, i prestiti (argomento vergognoso), gli usurai ecc.
Una esplosione di privato; inattesa almeno rispetto alle nostre conversazioni abituali da dove l'argomento famiglia è stato per lo più escluso. Per la prima volta la fabbrica - cottimo, bolla, straordinario, assemblee, scioperi, tutto - è apparsa come uno sfondo, sia pure importante, della vita familiare. La fabbrica ha dettato l'economia della famiglia, il suo modo d'essere e di quest'ultimo hanno parlato. Dubbio mio - non manifestato - e se il museo si occupasse di questo? A rispondere, senza saperlo, è stato Lino. Mentre l'orgia dei richiami alla vita familiare metteva in discussione quel poco di museo concepito sino a quel momento, lui, che ha una organizzazione familiare rigidissima e avrebbe potuto tenerci su una lezione, è saltato sulla barricata opposta e, alzando la mano con un gesto di insofferenza, ha detto "ma cosa stiamo qui a dire che abbiamo deciso e non deciso se era il padrone che decideva persino le volte che scopavamo ("beciavimu")".
Risata generale e liberatoria. Tutti hanno ammesso, specie in riferimento ai tempi più lontani ("Venivano le dieci di sera, ma anche prima, che potevi solo andare a dormire, ma dico dormire eh, non altro" aveva detto Elio), che la vita di fabbrica ha influenzato non poco la loro attività sessuale. In effetti tutto quello che ci siamo detti durante questa decina di incontri prova che la fabbrica ha determinato economia, cultura, politica e morale dei presenti e, di riflesso, la loro vita familiare, consumi, mogli e figli e tutto il resto. In fondo il museo si riprometteva non di dimostrarlo - son cose che sapevamo tutti già prima di cominciare - ma semplicemente di mostrarlo o documentarlo.


Manlio Calegari

Il Museo degli Operai


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